domenica 19 gennaio 2025

Il giornalista e l'ultimo brigante

Ugo Pesci (Firenze, 22 ottobre 1846 – Bologna, 13 dicembre 1908) è stato un giornalista italiano, studioso di Casa Savoia.
Dopo gli studi a Firenze, ove era nato nel 1846, frequentò l'Accademia militare di Modena conseguendo nel 1865 il grado di sottotenente.

Nella terza guerra d'indipendenza, ufficiale dei granatieri, prese parte alla battaglia di Custoza. Terminata la carriera militare, intraprese quella giornalistica, lavorando nella redazione fiorentina del Fanfulla. Nel 1870, come inviato del medesimo quotidiano, assistette alla breccia di Porta Pia.
Dopo la presa della città, seguì la redazione del quotidiano che si era trasferita a Roma, e qui ebbe l'occasione di frequentare la corte di Vittorio Emanuele II e di conoscere esponenti dell'alta borghesia laica cittadina e dell'ambiente vaticano. Lasciata Roma e trasferitosi a Bologna, continuò nel suo lavoro giornalistico e, dal 1888 al 1901, fu direttore della Gazzetta dell'Emilia.
L'esperienze del soggiorno romano furono dal Pesci trascritte in due libri di memorie Come siamo entrati a Roma. Ricordi e I primi anni di Roma capitale (1870-1878), pubblicati rispettivamente nel 1895 e nel 1907. La prefazione del primo volume fu scritta da Giosuè Carducci il quale apprezzò le doti cronachistiche e narrative dell'autore.
Sempre di sentimenti monarchici, Pesci scrisse alcuni libri e opuscoli dedicati al re Vittorio Emanuele II e al suo successore, il figlio Umberto I, che definì, dopo il regicidio di Bresci, "il re martire".
Malato, abbandonò la professione e morì a Bologna, a sessantadue anni, nel 1908. 

Ugo Pesci s'interessò più volte del brigante di #Sonnino Antonio Gasbarrone ( Sonnino 12 dicembre 1793 - Abbiate Grasso 1 Aprile 1882).
Il 9 Aprile 1882 scrisse infatti un notevole articolo sul giornale "L'illustrazione italiana", esattamente 8 giorni dopo la morte del brigante, il titolo dell'articolo : L' ULTIMO BANDITO.

E di Antonio Gasbarrone scriverà ancora in 
"Come Siamo Entrati In Roma"" (1895), un libro che tratta della storia dell'entrata delle truppe italiane nella città di Roma nel 1870. Il libro analizza gli eventi politici e militari che hanno portato alla fine del potere temporale del Papa e all'unificazione dell'Italia sotto il Regno di Vittorio Emanuele II. Pesci descrive le diverse fasi dell'assedio di Roma e le strategie dei generali italiani, oltre a fornire dettagli sulla vita quotidiana dei soldati e della popolazione civile durante il conflitto. Il libro considerato una fonte importante per la comprensione della storia contemporanea italiana e della questione romana.

E dal libro ecco le righe che parlano del famigerato brigante di Sonnino .

[...]. Non v'è nel forte, degna d'una visita, la sola compagnia degli zuavi.

È da diciannove anni ospite di Civita Castellana, con i suoi seguaci, il famoso bandito Antonio Gasparoni, detto Gasparone, che nel 1825 il Governo pontificio non riuscendo a prendere con la forza, ebbe prigioniero col tradimento, facendogli promettere l' impunità non che molte altre belle cose dall'arciprete Rappini di Sezze. Invece di dargli quanto gli avevano promesso per indurlo a consegnarsi spontaneamente, lo chiusero nel forte di Civitavecchia dove rimase fino al 1850, visitato spesso dai forestieri come una rarità. Molti scrissero di lui: il Mery gli dedicó un intiero capitolo delle Nuits italiennes. Da Civitavecchia fu trasportato a Spoleto, e dopo un anno di soggiorno in quella rocca, a Civita Castellana.

Poichè non era mai stato aperto contro Gasparone alcun regolare procedimento, e quarantacinque anni di reclusione prescrivono qualunque delitto, il governo italiano dovette non molto dopo mettere in libertà il temuto bandito, che si vide girare per Roma, ludibrio della ragazzaglia. Fu allora ricoverato ad Abbiategrasso, dove mori più che novantenne.

Allora, nel 1870, aveva settantasei anni ed era vispo e robusto. Dei suoi compagni, sette dei diciotto arrestati con lui nel 1825 sopravvivevano in buona salute. Il giovinetto della comitiva, un tal Nardone, aveva 66 anni. Il Masi, segretario e biografo del capo banda, che mi dette queste ed altre notizie, se la fama non mente aveva ricevuto da giovane gli ordini sacri, e v'erano certamente a que' tempi parroci e cappellani non più colti di lui.

Mentre parlavo col Masi che, bontà sua, con- siderandomi quasi collega, mi mostrava il manoscritto delle memorie del capo, andato poi a finire non si sa dove, nel forte, dai vicini accampamenti, erano sopravvenuti molti ufficiali di tutti i gradi.


Gasparone ed i suoi occupavano due camere circolari in due torrioni del forte, divise fra loro dalla sola larghezza d'un corridoio ed esternamente riunite da una specie di strada di ronda. Le finestre delle due stanze erano strette e basse, fra i piombatoi, sotto i merli; con inferriate che servivano al rispetto della tradizione, non certamente ad impedire una fuga non mai tentata ed ormai non desiderata: tanto che si permetteva ai detenuti d'andare qualche volta in paese. Due o tre granate erano andate a scoppiare contro le finestrine d'una camera, buttando all'aria stipiti ed inferriate, ed ingombrando di rottami il pavimento.

Le due stanze furono presto affollate. Gasparone raccontava con evidenti segni di vanità appagata, d'essere stato arrestato a tradimento; respingeva l'accusa d'alcuni delitti atroci attribuitigli dalla pubblica voce e dichiarava d'aver sempre nobilmente esercitata una professione che altri hanno poi screditata ed era, secondo lui, rispettabile quanto qualunque altra. Egli conservava il costume della ciociaria che corrisponde a quello convenzionale del brigante italiano aveva una bella testa, ma l'occhio ed il naso leggermente aquilino rammentavano nel loro insieme qualche cosa dell' uccello da preda: la barba aveva lunga, bianchissima e abbastanza pulita.... il che non si poteva dire di tutto il resto di quelle stanze.

Gasparone confidava molto nella giustizia del Governo italiano e ci pregava, tutti in massa, di raccomandarlo a chi poi, non sapeva dirlo, perchè non v'è da meravigliarsi se le idee di lui sul funzionamento di un Governo costituzionale erano molto confuse.

La sera Civita Castellana pareva un altro paese. Ufficiali e soldati vennero a migliaia in città dagli accampamenti e la popolazione si decise ad uscire di casa. In mezz' ora sparirono pane, sigari, bevande d' ogni genere. Al caffè bisognava contentarsi di un bicchier d'acqua inzuccherata: il locandiere della Posta, commosso dalle nostre invocazioni, ci dette da cena ma senza pane.

La mattina del 13 ci alzammo dal letto con la stessa nebbia del giorno prima. Le notizie della notte furono queste. Era morto il soldato del 39º fanteria gravemente ferito a un braccio. Si sapeva che il generale Ferrero, passato il Tevere ad Orte, era giunto in prossimità di Viterbo, da dove il colonnello De Charrette si era ritirato verso Vetralla. Il generale De Chevilly partiva con otto squadroni e due sezioni d'artiglieria per Ronciglione e Sutri per tentare di tagliargli la strada, se il De Charrette avesse avuta l'intenzione di sboccare a Monterosi sulla via Cassia.

Che cosa era accaduto intanto al quartier generale del 4º corpo? Verso il meriggio del 13 vi era giunto un dispaccio cifrato del ministro della guerra. L'ufficiale di stato maggiore di servizio era il capitano Alessandro Buschetti al quale incombeva di decifrarlo, si affrettò a disimpegnare il suo ufficio e a presentare il dispaccio al generale Cadorna. Era stato spedito alle 9 ant. e diceva precisamente così:

"In seguito deliberazione Consiglio de' ministri prego portare grosso suo corpo a marcia forzata sotto Roma, per giungere al più tardi domattina. [...].

Note : Dal testo si evince che Pesci conobbe Gasbarrone e si confrontò con il suo segretario/biografo Pietro Masi.

venerdì 2 settembre 2022

Termine o Cippo di Confine - Storia e diffusione in Italia

 

Con cippo di confine si intende un segnale che indica il confine tra due stati.

Normalmente il cippo è realizzato con pietre o pali; i cippi indicanti gli armoriali di due paesi limitrofi recano incisioni su rocce inamovibili. Oltre all' armoriale in genere riportano anche l'anno di collocazione del cippo e il suo numero d'ordine. Al di sopra del cippo a volte un solco indica il tracciato del confine. Al di sotto del cippo invece vengono spesso interrati testimoni di confine (ad esempio cocci marcati con appositi segni) con la funzione di verifica della collocazione originaria del cippo nel caso di una sua rimozione.

I cippi terminali sorsero in età romana come confini tra proprietà e "furono rivestiti di valore sacrale. In tal senso vanno considerati i Terminalia, le feste che si celebravano il 23 febbraio dedicate al dio Terminus"; a loro tutela il diritto romano predisponeva un'apposita formula di giudizio, l'actio finium regundorum.

I cippi in epoca moderna cominciarono a diffondersi, come segni di confini tra Stati, a partire dal XV secolo; in ambito urbano, comunque, i cippi continuarono ad esercitare un ruolo di confine amministrativo per tutta l'età successiva.

La storia dei termini o cippi di confine si perpetua nei secoli e troviamo anche dei documenti che testimoniano come avveniva la misurazione dei confini e l’installazione dei cippi a definirlo.

Il documento è una serie di disegni di un “agrimensore” francese (quelli con il cappello rosso sono gli agrimensori dei due confinanti gli altri sono semplici “aiutanti ) [Bertrand Boisset]

L’escursionista Gianluca Diana in una sua passeggiata nel bosco di Subiaco ne fotografa uno molto particolare. Esso presenta lo Stemma benedettino abbaziale (XVII sec) ed indica il Rettoraggio di Santa Scolastica riprodotto sui cippi di confine : questi cippi sono la testimonianza storico-archeologica che riguardano il complesso tema territoriale del Rettoraggio attraverso i secoli.

Il monastero di Santa Scolastica di Subiaco, all'origine dell'abbazia territoriale omonima, fu uno dei tredici monasteri fondati da san Benedetto da Norcia nella prima metà del VI secolo nel territorio sublacense.

Fondamentale per la conoscenza della storia del monastero e delle varie esenzioni e privilegi di cui fu dotata è il Regesto sublacense. Dopo la distruzione ad opera dei Saraceni, il monastero dei santi Benedetto e Scolastica (oggi Santa Scolastica) fu ricostruito e ottenne da papa Leone VII le prime proprietà e soprattutto, il 29 maggio 939, l'esenzione dalla giurisdizione episcopale. Un'ulteriore concessione fu data dall'imperatore Ottone I l'11 gennaio 967, in base alla quale l'abbazia sublacense ottenne l'immunitas su una serie di terre e castelli di sua proprietà, diventando così uno stato autonomo nel contesto del Sacro romano impero; l'autonomia temporale perdurò fino al 1753.

«Un altro documento importante del Regesto è il privilegio di Giovanni XVIII (1004-1009) del 21 luglio 1005, con cui venivano confermati i possedimenti e i diritti dell'abbazia ed erano sottratti ai poteri d'ordine del vescovo diocesano non solo il monastero, ma anche le chiese rurali. Quindi si può parlare di abbazia nullius solo per il monastero e le chiese incorporate a esso. Il privilegio venne confermato anche da Leone X (1049-1054) nel 1051

La necessità di definire i limiti della sfera di giurisdizione del monastero Sublacense di S. Scolastica è stata nel tempo variamente sentita.

G. P. Carosi sciolse il nodo della definizione politica dei possedimenti dell’abate di Subiaco tra X e XIII secolo.

Dal privilegio di Ottone I del 967,i possedimenti del monastero di Subiaco furono infatti considerati immuni dal controllo di qualsiasi potere esterno. L’abbazia territoriale di Subiaco alla pari delle diocesi confinanti, aveva suoi terminainterni ed il confine nord del suo territorio corrispondeva alla divisione tra Terra Sancti Petri e territorium Marsicanum”

da I CONFINI DEI POSSESSI DEL MONASTERO SUBLACENSE NEL MEDIOEVO (SECOLI X-XIII) di Paolo Rosati

https://www.academia.edu/5144437/I_confini_dei_possessi_del_monastero_sublacense_secoli_X_XIII_

Ma abbiamo altri esempi di termine di confine nel teritorio italiano :

Il Termenù e i cippi di confine (Riccomassimo)


A metà del Settecento, durante il governo dell’imperatrice Maria Teresa d’Austria, venne definito il confine tra l’Impero austro-ungarico e la Repubblica di Venezia. In seguito al trattato di Rovereto del 31 agosto 1752 vennero precisate anche le proprietà dei Lodron, costretti ad abbandonare il Pian d’Oneda, dietro pagamento di un’ingente somma da parte della comunità di Bagolino, a favore della quale il Comune di Storo firmò un’impegnativa fideiussione con l’approvazione imperiale.

Lungo il confine vennero posizionati grossi cippi di granito contrassegnati da lettere progressive dell’alfabeto e numerati. Ne sono rimasti solo due.
Il cippo più noto (Termenù) si trova a Riccomassimo, nel podere di Gilberto Lombardi, ed è contrassegnato n. 1 A 1753. L’altro è a Baitoni, 400 metri oltre la passerella sulle rocce, a sud del ristorante Miralago, lungo un sentiero che segue la costa del lago. È monumentale, alto quasi due metri, e ha scolpite su entrambe le facciate la scritta n. 6 F 1753. Sui lati nord sud ci sono due nicchie rettangolari che dovevano contenere rispettivamente l’effige bronzea dell’imperatrice e il leone veneziano di S. Marco.
Un altro segno del medesimo confine è scolpito nella roccia lungo il “Sentiero dei contrabbandieri. Dopo una decina di minuti di cammino, si vede incisa nella roccia (evidenziata da un segnale turistico) la data 1753. Di qui la linea di confine proseguiva poi verso la Valle di Vestino, dove altri cippi, fino al numero 36, sono stati rinvenuti e intelligentemente recuperati.
Altre colonne in granito si trovano lungo il lato nord di via Campini e sulla costa trentina del lago d’Idro presso la foce del Caffaro; alcune sono marcate 1882, altre 1885; segnavano il confine fra Italia e Austria; sui lati contrapposti, a nord e a sud, sono incide le lettere A (Austria) e I (Italia). Un alto cippo di granito, datato 1876, è collocato adesso nel parco giochi di Baitoni, un altro ancora lungo la provinciale Storo-Baitoni, con la data 1869.

Testi elaborati dall'associazione Il Chiese, materiale fotografico fornito da Lodron Fotoclub

Abbiamo poi quest'articolo di recente pubblicazione :

Trovato rarissimo cippo pomeriale in Piazza Augusto Imperatore: posizionato da Claudio nel 49 d. C. per delimitare i confini di Roma.


Una scoperta "eccezionale" avvenuta circa un mese e mezzo fa nel corso di un intervento per la realizzazione di un nuovo sistema fognario della piazza. In buono stato di conservazione era posizionato esattamente dove era stato sistemato in origine. Raggi: "Emozionante, la nostra città è straordinaria"

Lo hanno trovato vicino all'allaccio del collettore fognario, interrato e in parte danneggiato, ma subito si sono accorti che la scoperta era eccezionale: il cippo pomeriale in travertino rinvenuto durante i lavori di rifacimento di piazza Augusto Imperatore era stato posizionato dall'imperatore Claudio nel 49 d. C. per segnare il confine tra la città di Roma e l'ager (il territorio esterno).

Fu lui che, dopo la conquista della Britannia, decise di estendere i limiti dell'antica Urbe conferendole un nuovo limite sacro, civile e militare. Quando è stato ritrovato un mese e mezzo fa era in piena falda acquifera e non poteva essere lasciato sottoterra. Così, per renderlo visibile a tutti, è stato portato nella sala Paladino del museo dell'Ara Pacis e prossimamente sarà valorizzato all'interno del Mausoleo di Augusto.

"Si tratta di un nuovo importante tassello della Storia di Roma - ha spiegato la Soprintendente speciale Daniela Porro durante la conferenza stampa all'Ara Pacis - il pomerio era il recinto sacro in cui non si poteva entrare armati né fare sepolture. L'allargamento del pomerio era una decisione politica e religiosa molto importante e delicata contro cui si scagliò il Senato".

Claudio ebbe la meglio e questo atto si inseriva in una politica più ampia dell'imperatore: infatti aveva il proposito di allargare la cittadinanza anche alla Gallia (dove Claudio era nato). Voleva tornare a una visione multietnica e inclusiva di Roma così com'era al momento della sua fondazione. Ma i senatori si opposero, convinti che la cittadinanza spettasse solo agli italici: era già in atto lo scontro tra i sostenitori dello Ius Sanguinis e dello Ius Soli.

"Dunque l'allargamento del pomerio - continua Porro - aveva un preciso significato simbolico ma era anche funzionale ad accogliere nuovi cittadini".

Prima di questo cippo, l'ultimo è stato ritrovato 100 anni fa e rispetto agli altri si è conservato quasi interamente nelle sue originali dimensioni: misura 193 centimetri di altezza per 74,5 di larghezza per uno spessore di 54 centimetri.

Solo la parte superiore, una ventina di centimetri, manca. Il direttore dei Musei capitolini, Claudio Parisi Presicce, ha spiegato che nella parte mancante era stata incisa la prima parte dell'epigrafe che in tutto conta nove righe: vi era riportato il nome di Claudio e le sue cariche, compresa quella di Censore che gli ha permesso di modificare i confini pomeriali.

Poi, ancora visibile, la spiegazione di quell'allargamento: "Auctis popoli romani finibus". Ovvero: "Perché è stato ampliato il territorio del popolo romano".

Claudio era un imperatore molto particolare, avrebbe voluto studiare e ricostruire l'antica tradizione etrusca: addirittura introdusse alcune lettere che risalgono alla tradizione etrusca. Sono presenti nel cippo e questo rende la scoperta ancora più interessante, un racconto marmoreo della sua volontà di includere diverse civiltà. "Roma non smette mai di stupire e si mostra sempre con nuovi tesori", ha concluso la sindaca Virginia Raggi.

Termine di confine dei Malaspina a Giovagallo

Tra le tante cose antiche, che si incontrano nei boschi della Lunigiana, ce ne sono alcune che mi affascinano tanto: i termini o cippi di confine.

Essi possono avere diverse funzioni: delimitare, fissare la direzioni, determinare i confini, ricordare un qualcosa. Solitamente sono fatti in pietra arenaria e possono avere varie forme. Riportano spesso simboli, date, linee e, a volte, ci dicono tante cose di un luogo.
Ovviamente hanno un ruolo importante nello studio della storia, perche ci indicano con certezza il confine dei feudi. Inutile dire che nell'antichità, erano importantissimi e salvaguardati. Nello statuto della comunità di Terrarossa (libro 5º Cap.XI) si legge: "Chi con mala intenzione per usurpare i beni altrui confini di se, et de sua confinanti removerà termini sia punito per ciascuna volta e per ciascun termine a lire dieci e di più a rimetter in detto luogho detto termine".
Tra i cippi più belli che ho trovato, ci sono sicuramente quelli di Giovagallo. In particolare due, di forma e dimensione identica, posti a pochi metri l'uno dall'altro. I due cippi si trovano su un’ ampia strada di terra, verosimilmente trafficata fin dai tempi antichi.
Il primo cippo (quello delle prime foto in basso), presenta un solco sulla parte superiore. Da un lato largo, ha una riga centrale con delle righe laterali che partono da quella centrale.... purtroppo è molto consumato, ma osservandolo da vicino si può notare che il disegno ricorda lo stemma dei Malaspina dello "spino secco”. L'altro lato presenta delle linee scolpite, quasi a formare una riga terminante in due frecce (<---→). Ha una particolarità interessante: è molto consumato al centro, in senso orizzontale. Ci siamo chiesti il motivo e siamo arrivati ad una conclusione molto plausibile: quelli sono i segni di una corda che per anni ha consumato la pietra. Magari corde che servivano a legare dei cavalli o degli animali da tiro, magari in un momento di riposo, dopo aver fatto molta strada.
L'altro presenta una grande V sul lato largo, posto ad ovest. Questo fa supporre il che la V indichi il feudo di Veppo. Sul lato opposto (quello ad est) c'è scolpita una grande T che, quasi certamente, indica il feudo di Tresana. Sui lati stretti presenta: da un lato la data 1563, mentre dall'altro una croce. Il tutto è visibile nelle foto sotto.
Purtroppo, quest'ultimo cippo è stato rubato e quelle postate, forse sono le uniche foto esistenti, fatte molto tempo fa. Per questo motivo, non posso indicare pubblicamente su internet, il luogo dove si trova il cippo "superstite". Inutile dire che se vi dovesse succedere di vederlo in qualche giardino, provvedete immediatamente a fare denuncia, visto che queste persone stanno rubando la nostra storia.

Cippi di confine nell’Appennino tosco – emiliano


Percorrendo il crinale di confine tosco - emiliano - Province di Parma e Massa Carrara, ci si imbatte in parecchi cippi in pietra arenaria, messi a dimora nell'anno 1828 per delimitare la linea di confine tra il Ducato di Parma ed il Gran Ducato di Toscana.

I "termini" originariamente collocati erano in numero di 123, come si evince dalla seguente:

Raccolta Generale delle Leggi per gli Stati di Parma, Piacenza e Guastalla – Disposizione Presidenziale che pubblica l’atto finale del collocamento de’ termini lungo la linea di confine tra gli Stati di Parma e quelli di Toscana. Parma, 7 Gennajo 1829”.

Atto finale del collocamento dei termini nella linea di confine, tra il Ducato di Parma e il Gran Ducato di Toscana. Processo verbale dell’apposizione dei termini, di confine sulla linea dell’Appennino tra il Ducato di Parma e il Gran Ducato di Toscana. L’anno mille ottocento ventotto, questo dì quattordici Ottobre.

Essendo che colla Convenzione fatta in Firenze il ventisette Novembre 1824 fossero combinate le vertenze giurisdizionali vigenti già sopra alcuni punti della linea dividente i Dominj Parmigiano e Toscano sull’Appennino; e fosse convenuto che le Commissioni da nominarsi per l’apposizione dei termini, e per ogni altra misura diretta ad assicurare la piena e perpetua osservanza degli articoli concordati, passerebbero un atto contenente la descrizione delle operazioni eseguite, nonchè le condizioni, e dichiarazioni di natura di simili atti....(omisis)



Termine n.° 121 posto come sopra sul crine del Monte luogo detto la Nuda di Iera a lato della strada che conduce a Iera suddetta venendo dal Parmigiano (secondo di triplice confine), ove ha fine il Dominio Estense col suddetto Territorio di Treschietto e ricomincia il Bagnonese Toscano, proseguendo sempre il Parmigiano col Comune di Monchio, distante dal precedente pertiche fiorentine 1987, pari a metri 5656 e cent. 04.
Termine  n.° 122, posto come sopra sul crine del Monte, luogo detto Bragolata o Losura, (terzo di triplice confine), ove abbandonato nuovamente il Toscano, torna l’Estense col Territorio di Varano, ed il Parmigiano col Comune di Monchio, distante dal precedente pertiche fiorentine 193, pari a metri 578 e cent. 16.
Termine n.° 123, posto come sopra sul crine del Monte nella Foce, luogo detto Branciola o Sella (quarto di triplice confine) ove lasciato l’Estense, incomincia il Toscano col Territorio Fivizzanese, seguitando sempre il ridetto Comune di Monchio Parmigiano, distante dall’antecedente pertiche fior. 870, pari a metri 2,540 e cent. 40.

Queste notizie le ho prese dal seguente sito:
http://www.lavocedimonchio.it/Microsoft ... 0Tosco.pdf


è molto interessante e, oltre alla ricerca ed alla descrizione dei cippi di confine, contiene narrazioni sul contrabbando del sale, sui mercati , su letali traversate invernali, su controversie per la pulitura di strade dalla neve, (metà 1700 e fine 1800)

Nella parte iniziale (Nord - Foce dei tre confini) e (Sud - Monti Bocco e Malpasso - zona Passo del Lagastrello) si trovano cippi di confine anche fra gli Stati di Parma e Genova (GE), fra Toscana e Genova (GE), a Nord, e fra Parma e Modena ed uno fra Modena e Lucca.
Infine nella zona del Passo del Cerreto si trova ancora un termine di confine dell' Empire Francais napoleonico.

Concludo con i Cippi di Confine papalini/borbonici tanto noti nel nostro territorio

Un confine lungo tredici secoli quello tra lo Stato Pontificio ed il Regno delle due Sicilie. Non riuscendo a stabilire l’esatto confine per gestire le risorse del territorio, finalmente venne sottoscritto a Roma, il 26 settembre 1840, un trattato che tra l’altro prevedeva l’installazione di 686 Termini di confine numerati progressivamente dal mar Tirreno al mar Adriatico (la numerazione effettiva va da 1 a 649 perché alcuni Termini hanno lo stesso numero seguito da una lettera alfabetica maiuscola).


chiavi di Pietro 
 

giglio borbonico


medaglia di confine 1840


Erano delle colonnette cilindriche in pietra alte poco più di un metro scolpite in loco con inciso da una parte il Giglio Borbonico (Regno delle due Sicilie) ed il numero, dall’altra parte le Chiavi di San Pietro (Stato Pontificio) con la data d’installazione, sulla sommità della colonnetta il solco della linea di confine, le due estremità di esso erano rivolte in linea d’aria al cippo che lo precede e che lo succede, poteva poi capitare che uno sperone di roccia fungesse da cippo come ad esempio il N° 26 di Monte Cavallo a Sonnino.

L’ installazione dei cippi iniziò effettivamente nel 1846, il N° 1 si trova a Terracina.

Nel territorio di Sonnino si trovano tutti in ambiente montano, attraversano quel confine naturale che sono i Monti Ausoni e sono in totale 16 di cui 13 ancora integri.

Alcuni cippi già in passato vennero quasi subito divelti per rubarne la cassetta in legno sepolta alla loro base con all’interno una medaglia commemorativa.

Gran parte dei cippi sono dovuti esser riposizionati, dei tre mancanti sulle cime del confine di Sonnino non se ne hanno traccia.

La fortuna dei cippi ebbe breve durata, da li a pochi decenni dalla loro installazione l’antico confine venne cancellato con l’unità d’Italia.

Termini o cippi di confine nel territorio di Sonnino

N 18 Cima Monte Romano (assente)

N 19 Spregatora di M. Romano

N 20 Cisternone

N 21 Cavuto delle Terre di S. Pietro

N 22 Pero Ciavolone 1°

N 23 Pero Ciavolone 2°

N 24 Lo Peschio

N 25 Monte Ceraso

N 26 Il Cavallo

N 27 Cisterna Maleccia

N 28 Serra del Conte

N 29 I Cima di Monte Tavanese

N 30 II Cima di Monte Tavanese (assente)

N 31 Cima della Serra Tavanese

N 32 Serra Tavanese

N 33 Monte delle Fate (assente)


N 18 Cima Monte Romano


N 19 Spregatora di M. Romano




N 20 Cisternone



N 21 Cavuto delle Terre di S. Pietro



N 22 Pero Ciavolone 1°



N 23 Pero Ciavolone 2°



N 24 Lo Peschio



N 25 Monte Ceraso



N 26 Il Cavallo



N 27 Cisterna Maleccia



N 28 Serra del Conte



N 29 I Cima di Monte Tavanese



N 30 II Cima di Monte Tavanese



N 31 Cima della Serra Tavanese



N 32 Serra Tavanese 



N 33 Monte delle Fate




mercoledì 25 maggio 2022

L' abito del brigante


Il brigante aveva sul capo, un poco inclinato sul davanti, il tradizionale cappello a cono di feltro, alto, con le tese strette e rivolte all’insù, cinto da nastri colorati, crini, intrecciati in più giri e che ricadevano sulle spalle. 
Negli intrecci erano fissati i pennacchi costituiti da piume di fagiano, gallo, pavone o faraona, ma anche piccole immagini devozionali, santini, il più delle volte l’immagine della Vergine. 
I capelli erano lunghi e folti, raccolti dietro da una treccia e sistemati in una rete a forma di sacchetto chiusa da un nastro. 
Sulle spalle un tabaro di panno scuro, un mantello ampio usato sia per ripararsi dal freddo e per nascondere dalla vista la loro identità, ovvero il loro fucile pronto per agire con i malcapitati. 
L’abbigliamento nascosto sotto il mantello è 
variopinto : una giacca a falde corte, gilet, pantaloni di velluto, calze bianche (pezze) e ciocie. 
La giacca era ornata da bottoni d’acciaio o galloni d’argento. I tessuti più comuni sono il panno ed il fustagno (vellutino) , i colori più frequenti sono il verdone, il verde oliva, il blu, il castagno rossiccio, il marrone, il grigio ferro e cenerino. 
Intorno al collo, allacciato alla Talma o fermato con un cappio, portavano un fazzoletto di cotone colorato. 
I pantaloni sono a ponte con apertura sul davanti e doppia fila di bottoni, corti al ginocchio e chiusi da fibbie sul polpaccio. 
Sul ventre una lunga fascia di stoffa, poteva essere lunga anche un paio di metri ed avvolta in più giri sulla vita, fermata solo da un’annodatura particolare veniva chiamata “ventriera”.
Il calzare usato era appunto la ciocia, rudimentale calzatura di antica tradizione, costituita da una soletta di cuoio stretta al piede da dei lacci incrociati ai piedi e più volte girate attorno e fermate a mezza gamba.
I briganti facevano sfoggia di gioielli, orologi, anelli e collane, frutto di rapine e riscatti. Alle orecchie le così dette “cancane”, orecchini a 
cerchio, regalati loro dai compari alla propria nascita, secondo un’antica tradizione popolare, per scongiurare il malocchio.
I fucili utilizzati sono quelli con le canne mozze e i tromboni, più facili da nascondere sotto la mantella, pistole a pietra focaia e coltellacci alla genovese, in vita la cartucciera chiamata “padroncina”.